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Nel vangelo di questa domenica si parla della guarigione di dieci persone. Di questi dieci uno solo torna indietro per ringraziare; solo lui ha davvero ottenuto la guarigione completa. Certo, anche gli altri nove sono stati guariti dalla lebbra e, strappati all’emarginazione, possono rientrare a pieno titolo nella comunità d’Israele.

Dal punto di vista fisico la guarigione è stata efficace per tutti. Ma questi guariti non escono dal loro egocentrismo: sono sanati, ma non hanno un rapporto gioioso con Dio; vivono, ma non sono riconoscenti della loro vita. Sono privi di una delle ricchezze più grandi dell’uomo: saper dire grazie. Chi vive, possiede un patrimonio grande ma effimero, che prima o poi gli verrà sottratto. Ma chi ringrazia per la vita, oltre al patrimonio della vita, possiede anche l’amore, l’amicizia, la benevolenza di quel Dio che gli ha donato l’esistenza. E questa sarà per lui una ricchezza permanente, di valore incalcolabile. “Rendere gloria a Dio” non va inteso solo come un obbligo giuridico; si tratta piuttosto di un’opportunità di gioia. Non basta vivere, bisogna anche cantare la vita; non basta esistere, vale la pena esprimere la gioia. A questo conduce la lode di Dio. Ma non basta: il
Vangelo di Luca insiste nel notare che chi ritorna a rendere grazie è un samaritano, uno straniero. Dunque, anche tra i pagani e gli scismatici ci sono animi veramente religiosi mentre l’appartenenza al popolo di Dio non è garanzia sufficiente di fede. Possiamo ricordare le parole ammonitrici del Signore: « Ora io vi dico che molti verranno dall'oriente e dall'occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli » (Mt 8, 11s). Ma possiamo interrogarci ulteriormente: come può avvenire che i più religiosi si mostrino senza riconoscenza mentre i lontani rivelano una sensibilità pin attenta? C’è un pericolo sottile ma ben presente nella vita dell’uomo religioso: il pericolo di considerare Dio come un elemento scontato della sua vita. Siamo così abituati a trattare con Dio che diamo per scontato questo rapporto e prendiamo con superficialità quello che il Signore ci dona. Quasi, quasi, scambiamo i doni di Dio con altrettanti diritti nostri. E allora la scintilla della riconoscenza fatica a scoccare. È, per esempio, una religiosità senza riconoscenza quella che si riflette nel fratello maggiore del figlio prodigo; o quella degli operai della prima ora che si lamentano per il dono fatto agli altri; o quella dei farisei che criticano Gesù perché accoglie peccatori e pubblicani. È una religiosità senza gioia, senza stupore. Si vedano, invece, i gesti affettuosi, addirittura esagerati della peccatrice di Luca 7, 36ss; questa donna che ha conosciuto l’amarezza del peccato, il peso della colpa, sente con altrettanta esultanza la liberazione del perdono ed esprime nel modo più spontaneo la sua riconoscenza: «quello a cui si perdona poco (cioè chi, ritenendosi giusto, considera poco rilevante il perdono di Dio) ama poco (cioè sente poco la riconoscenza)» (Lc 7, 47). In questo modo il brano di Vangelo diventa invito a una vita religiosa autentica perché sentita in tutta la sua gratuità. Buona domenica.
Santino

Santino

Collaboratore di Animatamente. Animatore junior.

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