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Per la formazione degli Animatori di pastorale giovanile vi riporto un testo molto bello che abbiamo utilizzato in passato, dal quale si possono prendere tanti spunti. Purtroppo non conosco l'autore per poterlo citare.
La formazione dei ragazzi che vogliono intraprendere un percorso di Animazione è molto importante e spesso si sottovalutano tanti aspetti. Si parte con tanto entusiasmo senza lavorare su se stessi, pensando che far divertire, coinvolgere, essere simpatici, avere tempo a disposizione sia sufficiente...Tutti questi aspetti sono sicuramente un ottimo punto di partenza, ma un cammino serio, per un animatore che vuole raggiungere obiettivi importanti con i sui ragazzi, con i suoi gruppi, dovrebbe prevedere dei seri percorsi di formazione, guidati dal proprio Sacredote o responsabile, e generalmente confrontandosi con gli altri animatori più "maturi" della propria Comunità.

Per altri aspetti di formazione, spunti, incontri, potete visitare anche Pastorale giovanile Chiesa di Milano

Buona lettura!

IO ANIMATORE?
1. Essere animatore è una vocazione

A. Questione di termini.
Perché dunque parliamo di “animazione pastorale giovanile” e non di “catechesi”? È questione di intendersi sui termini. Di per sé la parola catechesi significa “insegnamento”, usato in questo senso il termine è riduttivo rispetto a ciò che abbiamo in mente, perché così ci sembra, l’attività pastorale con i giovani, pur comprendendo in sé il momento dell’insegnamento non può ridursi a solo insegnamento, o quantomeno non può far consistere l’insegnamento in una semplice comunicazione di notizie.
Nel linguaggio di molti però, la parola catechesi ha ormai assunto il significato tecnico di “trasmissione della fede”, si dice allora che la trasmissione della fede non può avvenire attraverso un mero insegnare, si dà perciò alla parola catechesi un senso più ampio, di “insegnamento della vita”. Siamo perfettamente d’accordo sul fatto che la fede non possa essere trasmessa attraverso il solo insegnamento, però allora è questione di intendersi sui termini, preferisco l’espressione animazione pastorale, perché è meno ambigua.
Vi sono altri che usano la parola “formazione”, anche questa parola non mi piace, perché presuppone un giovane che non ha alcuna forma e che la deve ricevere attraverso l’opera di un “esperto” che scrive per così dire su di lui come su una tavola bianca. Più che di formazione bisognerebbe parlare di autoformazione, il processo di crescita nella fede, come nell’umanità, non può certo essere il frutto di una passività. Il protagonista di questo processo rimane innanzitutto il giovane che cresce, e la funzione dell’animatore non può e non deve essere più che un accompagnare questo processo. La parola formazione del resto è ormai ampiamente in uso nel linguaggio professionale e questo la rende in buona parte inadatta a questo contesto.

B. La pastorale giovanile: Un mistero
È molto importante conservare nel profondo del cuore il carattere “misterioso” della nostra attività di animazione. Il nostro lavoro non deve partire da un progetto astratto che noi intendiamo imporre sul giovane, ma piuttosto dobbiamo avere sempre nel cuore una domanda chiara: che cosa vuole fare ora e adesso il Signore nella vita di questo giovane uomo in crescita? Ricordiamo sempre che non siamo noi gli autori di questa crescita, noi agiamo come collaboratori. “Noi non intendiamo far da padroni sulla vostra fede; siamo invece i collaboratori della vostra gioia” (2Cor. 1,24)
Tutto è mistero in questa attività: è mistero ciò che il Signore vuole fare nel cuore di questo giovane che ho davanti, ed è mistero il fatto che si serva di me per aiutarlo (non ne ha alcun bisogno, e poi perché io?).
Naturalmente uso qui la parola mistero in senso teologico, non cioè nel senso di cosa oscura e incomprensibile, ma semmai di troppo luminosa per essere compresa dalla nostra mente limitata. Come ogni mistero quindi il processo di crescita va guardato con timore e venerazione e con profondo rispetto per l’identità e le peculiarità uniche di ciò che sta avvenendo. Ricordiamo sempre, in ogni momento, che siamo testimoni di un miracolo: Dio, il Dio tre volte santo, il Creatore e Signore, si dà a questa creatura che ho davanti, si fa’ conoscere da lei e la chiama ad essere Figlio e Sposa, e si serve di me per realizzare questo incontro. Solo un’immensa umiltà e la continua consapevolezza del proprio essere inadeguato a questo evento può essere il giusto atteggiamento da parte nostra.
Si comprende facilmente perciò che ogni giovane va avvicinato come un modello unico. Noi non siamo chiamati a lavorare con i giovani, ma con questo concreto giovane che ho davanti. Sarà per questo che diffido degli esperti di giovani, forse perché tutto quello che ho imparato io, in tanti anni di attività nel mondo giovanile, è che non esistono due storie uguali e che solo il primato dell’ascolto ci garantisce dal commettere errori madornali ed autentiche violenze.
È mistero naturalmente anche il fatto che il Signore abbia scelto di servirsi di me in quest’opera. Perché? Lui non ha bisogno di me, poteva indifferentemente scegliere un altro per questo ministero, io non sono certo la persona più adatta che conosco per questo compito, anzi, ne conosco tanti migliori di me, con più carismi e più talenti di me, e allora perché io? Del resto poteva anche non servirsi di nessuno, accade a volte che nella vita di certi uomini il Signore fa’, per così dire, tutto da solo, guidandoli per sentieri talmente imprevedibili e bizzarri che nessun altro avrebbe potuto seguirli. Perché non fa’ così sempre?
In linea generale dobbiamo dire: il Signore fa’ così perché ama la Chiesa, se tutti gli uomini arrivassero a Lui senza mediazioni la Chiesa sarebbe inutile, invece il Signore ama questo popolo affaticato e bizzarro, che arranca sui sentieri della storia per seguire il suo agile passo. Per quanto riguarda poi il “perché io?” l’unica risposta che riesco a darmi in tanti anni è: “perché serve alla mia conversione”. Personalmente non mi sento particolarmente tagliato a lavorare con i giovani, mi sembra di avere le qualità umane e il temperamento che mi renderebbero più adatto ad un lavoro con gli adulti, e invece, da molto tempo ormai, il Signore sempre mi rimanda a questo servizio. Non che non lo accetti con gioia, anzi. Lui è il Signore, faccia ciò che crede, ma non posso non interrogarmi sul perché. Sono felice di lavorare nel mondo giovanile e lo faccio con grande passione ed entusiasmo, tuttavia rimango sempre con questa domanda, perché io?
È un mistero, ed oltre all’atteggiamento di riverente stupore che si diceva prima, bisogna aggiungere che va accostato sempre con timore ed obbedienza.

C. Crescere è una lotta
Scrive S. Paolo: “La nostra battaglia infatti non è contro creature fatte di sangue e di carne, ma contro i Principati e le Potestà, contro i dominatori di questo mondo di tenebra, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti.” (Ef. 6,12). Questo principio che è vero per tutta la vita cristiana, si applica in modo particolare alla pastorale giovanile. Se è vero per qualsiasi cristiano che è sciocco e pericoloso vivere ignorando il male, è vero soprattutto per chi si assume il compito di accompagnare altri in quel combattimento che è la vita cristiana.
Voglio dire che per troppo tempo chi si è occupato dei giovani nella Chiesa ha pensato che il suo compito fosse semplicemente quello di accompagnarli in una crescita umana, come se noi dovessimo innanzitutto “educare”. Ritengo invece che ad educare siano chiamati altri, i genitori innanzitutto, a noi il Signore chiede di accompagnare il giovane nella sua crescita spirituale, e sottolineo spirituale.
Più di altri il giovane è sottoposto alla tentazione e deve perciò imparare presto a combattere. Il mondo in cui viviamo, che ha sottomesso ogni valore morale al primato del denaro, ha imparato ben presto che i giovani sono il mercato potenziale più ampio e fruttifero del mondo e li sfrutta da questo punto di vista senza ritegno. Pensate ad esempio all’immenso mercato della musica e del divertimento (restando nel lecito, non parliamo di pornografia e droga) dove pur di vendere sparisce ogni preoccupazione di coscienza.
In questa situazione ogni giovane è sottoposto a sollecitazioni pressoché intollerabili, non paragonabili a quelle a cui erano sottoposti i giovani delle precedenti generazioni. L’idolatria della libertà, il culto dell’esperienza, sono strumenti abilmente usati proprio per questa manipolazione di mercato, così che i giovani sono pressoché privi di armi contro queste tensioni. Tutto questo si presenta come un inganno di proporzioni mondiali, e se noi non possiamo lottare contro il mondo intero dobbiamo tuttavia aiutare questo concreto giovane che abbiamo davanti a combattere la sua battaglia.
Non si tratta di essere moralisti, non c’è niente di più stupido del moralismo, perché il bene non può essere imposto, ma si tratta di suscitare nel giovane la nostalgia per un altro modo di vivere, per dei valori autentici. Occorre mostrare al giovane la necessità di compiere delle scelte forti, la bellezza di scelte esigenti e totalizzanti, che coinvolgano tutta la persona, anche nell’intimità.
In uno dei suoi “pensieri” Pascal osserva che a chi dice “lascerei i miei vizi se avessi la fede” bisognerebbe avere il coraggio di rispondere “avresti la fede se lasciassi i tuoi vizi”. È proprio questa incapacità di vincere la tentazione che nella stragrande maggioranza dei casi tiene i nostri giovani lontani dal Signore. Che fare allora? Abbiamo delle armi in questa lotta, che S. Paolo ci elenca: “Prendete perciò l'armatura di Dio, perché possiate resistere nel giorno malvagio e restare in piedi dopo aver superato tutte le prove. State dunque ben fermi, cinti i fianchi con la verità, rivestiti con la corazza della giustizia, e avendo come calzatura ai piedi lo zelo per propagare il vangelo della pace. Tenete sempre in mano lo scudo della fede, con il quale potrete spegnere tutti i dardi infuocati del maligno; prendete anche l'elmo della salvezza e la spada dello Spirito, cioè la parola di Dio. Pregate inoltre incessantemente con ogni sorta di preghiere e di suppliche nello Spirito, vigilando a questo scopo con ogni perseveranza” (Ef. 6, 13-18).
In una sola parola tutto questo si riassume nella preghiera. Sarebbe follia accingersi a questo compito senza porre innanzitutto il dovere di pregare incessantemente per i giovani che ci sono affidati, ricordateli continuamente al Signore, e metteteli sempre sotto la sua protezione. Entreremo più tardi nel dettaglio su questa lotta e su come affrontarla, ora mi premeva soltanto mettere in evidenza quale è effettivamente la posta in gioco.
D. È il Signore che ti chiama
Non c’è dubbio che nessuno può attribuirsi da sé questo incarico. Da ciò che abbiamo detto è evidente che è un impegno di tale responsabilità e di tale difficoltà che solo la fede in una effettiva vocazione può consentirci di portarne il peso.
La domanda allora non sarà “sono capace?” È del tutto ovvio che non lo sei, io non lo sono, nessuno lo è. La domanda invece deve essere: “il Signore ti chiama a questo?” Se infatti è il Signore a chiamarci per questo incarico, lui ci darà anche tutto quello che serve per svolgerlo come lui vuole. Tutto viene da Dio e questa opera è la sua opera, non la nostra, ancora una volta ripeto che noi siamo solo collaboratori, è Dio che agisce e da questo deriva la nostra certezza e la nostra fiducia.
Occorre perciò un attento discernimento nella preghiera, per verificare se, al di là dei miei desideri il Signore davvero ci chiama a questo. Questo corso che stiamo svolgendo vuole essere per l’appunto un concreto aiuto in questo discernimento.

IO ANIMATORE?
2. Le qualità umane dell’animatore

A.La prima e più importante qualità umana dell’animatore è quella della libertà interiore, tutte le altre derivano da questa, vi dedicheremo perciò una lezione intera, riservandone una successiva alle altre qualità.
Uno dei fenomeni più tipici dell’adolescenza è il trasferimento della dipendenza. Il giovane va in cerca della sua identità e sta lottando per autodefinirsi. Solitamente in questo processo c’è una fase di rifiuto del modello ricevuto dai genitori. È un rifiuto preconcetto e aprioristico, del tutto indipendente dalla riflessione e dalla ricerca della verità, per cui è inutile affrontarlo su questo piano (è l’errore che la maggior parte dei genitori fa’). In sé questo rifiuto dei genitori fa’ parte di un processo naturale, non deve perciò essere né demonizzato né sopravvalutato, reprimerlo può bloccare per anni il processo di maturazione della personalità. È una normale fase della crescita che solitamente si conclude, se il processo si svolge senza traumi, in tre o quattro anni.
Spesso accade che l’adolescente attraversa una fase di passaggio, potremmo chiamarla della “ricerca dei modelli”, in cui avendo abbandonato il modello proposto dai genitori, ma non avendo ancora maturato una propria personalità indipendente, sente il bisogno di identificarsi in qualcuno, verso cui stabilisce solitamente un rapporto di dipendenza, da cui sentirsi guidato e protetto. Qui entra in gioco l’animatore e l’importanza che sia interiormente libero, perché questo appoggiarsi del giovane può scatenare in lui delle lotte interiori non indifferenti.
In ogni persona esistono due bisogni fondamentali, profondamente correlati e interdipendenti, sono il bisogno di identità e il bisogno d’amore. È indispensabile che l’animatore sia una persona profondamente equilibrata in queste aree della personalità, cioè che sia capace di una corretta autostima e che non abbia delle vistose carenze affettive, o quantomeno che sia consapevole delle proprie ferite in queste aree e sappia controllarle.
A. Il bisogno di identità
Ogni uomo ha bisogno di percepire se stesso come un valore, di avere un’immagine positiva di sé, in una parola di autostimarsi. La mancanza di autostima genera solitamente una serie di conflitti relativi all’autorità. Un animatore in un gruppo ha il compito preciso di avere autorità e di esercitarla, non può sottrarsi a questo dovere e più lo farà in modo equilibrato, più il gruppo ne guadagnerà in serenità e positività.
A.1 Prima ipotesi: la tentazione del dominio
Immaginiamo una persona che non abbia una positiva immagine di sé: poiché nessuno può vivere senza stimarsi questa persona sarà alla continua ricerca dell’adorazione dei suoi gregari. Per avere la sensazione di essere qualcuno si circonderà di “yes men”, incapaci di decisioni personali. Naturalmente il nascere della dipendenza in un adolescente costituisce per questa persona una grave tentazione: comincerà allora a presentarsi come “esperto” dotato di onniscienza e onnipotenza, unico solutore dei problemi, sarà geloso di eventuali altri interventi esterni, cercherà di vincolare l’altro a sé in un rapporto esclusivo. Evidentemente questo atteggiamento non ha nulla di educativo, anzi, ne ha spazi di evoluzione, essendo interesse di entrambi che il rapporto di dipendenza perduri a tempo indefinito. Vi sono anche altre forme di esercizio del potere, più materiali e grezze, ad esempio il potere delle chiavi (per andare in quella stanza devi avere il mio permesso) e cose di questo genere.
Ciò che rende più insidiosa questa tentazione è che solitamente non ce ne rendiamo conto: razionalmente siamo convinti di fare la cosa giusta, e magari lo è anche. Ma le motivazioni profonde che ci muovono sono sbagliate, e quindi a lungo andare porteranno frutti avvelenati.
A.2 Seconda ipotesi: la tentazione della passività
La mancanza di autostima può generare anche all’opposto un bisogno di sottomissione a qualcuno, anche a questo dovete fare attenzione, perché come animatori non siete gli ultimi responsabili di un gruppo, ma dovete comunque rispondere ad un altro delle vostre scelte. Nasce allora l’incapacità di prendere iniziative personali, il bisogno di vedersi confermati in ogni singolo passo. A volte la situazione richiede tempestività e fermezza, non c’è niente di peggio in quei casi che rispondere “andrò a chiedere al parroco e ti farò sapere”.
Un animatore non deve avere paura di sbagliare se necessario, perché sa che non per questo verrà meno la stima nei suoi confronti (ovviamente il parroco, o il responsabile superiore, ha la responsabilità corrispondente di non inibire questa autonomia dell’animatore con atteggiamenti punitivi fuori misura).
Generalmente si assumono comportamenti sbagliati in questo senso con una scusa di falsa umiltà, l’umiltà invece è esattamente il contrario; chi è umile non ha paura di perdere la faccia, perché l’ha già persa, ovvero ha perso la maschera che copre la sua mancanza di autostima, umile non è chi si sottomette sempre e comunque, ma chi ha una esatta percezione di sé.
Anche un animatore con questo tipo di problemi interiori non è capace di gestire la situazione della dipendenza, perché non offre al giovane un modello di sicurezza e di appoggio, di cui invece il giovane ha bisogno.
A3. Terza ipotesi: la paura di comandare
Questa è forse la tentazione più sottile, è quella che generalmente corre chi, pur non avendo risolto il proprio complesso di dominio, ne è tuttavia consapevole e lo rifiuta. Tipico il caso di certi genitori “sessantottini”. In realtà in qualsiasi gruppo si avverte il bisogno dell’autorità e della fermezza; occorre prendere decisioni ed essere certi che siano eseguite, ma se io ho paura di esercitare la mia autorità presenterò le decisioni in modo sempre perdente, cioè senza motivare il giovane ad eseguirle.
Un animatore con questo tipo di complesso tenderà a non porre alcun freno ai giovani, lasciandoli pressoché liberi di fare qualsiasi cosa, il che significa ultimamente abbandonati a se stessi. È forse l’atteggiamento meno educativo in assoluto (Cfr. “La scuola” oppure “Bianca”). Da un altro punto di vista, chi ha questo tipo di problema è costantemente terrorizzato da possibili attacchi alla sua indipendenza, vede ovunque autoritarismo strisciante, ed è incapace dio rapportarsi in modo coretto e trasparente a chi porta l’autorità. Tutto questo rende molto difficile per lui la collaborazione e l’appartenenza ad una comunità.

B. Il bisogno di amore
Normalmente si distingue tra bisogno di essere amato e bisogno di dare amore, in verità mi sembrano piuttosto due aspetti d un unico problema, quello delle carenze nell’area affettiva, per cui considererò questi due bisogni come uno unico: il bisogno di amore appunto.
B1 Prima ipotesi: il ricatto affettivo
Questa distorsione è parallela a quella che abbiamo già visto del dominio, in effetti è un altro modo di esercitare il potere, attraverso l’affetto e non attraverso la violenza, ma con gli stessi fini, ovvero il bisogno costante di sentirsi amati da qualcuno, il gusto di sentirsi dire: “ma com’è bello l’animatore, ma com’è simpatico, ma come gioca bene” ecc.
In effetti chi non ha raggiunto una certa maturità in quest’area della personalità dimostra di essere eterodipendente, incapace di stare da solo con se stesso. Mette in atto allora una complessa strategia in cui il giovane viene usato come uno strumento per la compensazione delle mie carenze.
È una tentazione che si manifesta soprattutto verso giovani del sesso opposto a quello dell’animatore (senza nessun sospetto moralistico per carità), spesso in una ricerca eccessiva del contatto fisico (carezze, baci, abbracci ecc. Possono essere, se dati al momento appropriato, molto buoni, ma fuori luogo sono quanto mai diseducativi, sono tentativi di legare affettivamente a sé la persona).
Dio non voglia poi che sorga un conflitto tra l’animatore e il suo superiore, in questo caso è quasi inevitabile che i giovani siano aizzati contro quest’ultimo, reo di “lesa maestà”. Evidentemente vale anche in questo caso ciò che detto a proposito della dipendenza nell’ipotesi A1.
Non è molto importante in questa ipotesi se prevale il modello attivo o quello passivo, ovvero se prevale il bisogno di dare amore o quello di essere amato, poiché c’è un modo di dominare, più subdolo e strisciante, anche attraverso una apparente passività.
B2. Seconda ipotesi: l’affronto personale
È tipico in chi non ha risolto le proprie carenze affettive vedere tutto come riferito a se stesso. Ogni contestazione allora, anzi, ogni disaccordo sarà visto come un affronto personale, rendendo l’animatore incapace di un corretto discernimento su ciò che gli viene proposto in quel momento.
Poiché il processo di dipendenza del giovane e il suo identificarsi nell’animatore devono avere un termine perché il giovane possa giungere alla maturità, e generalmente questo avviene attraverso una ribellione traumatica, soprattutto se l’animatore non è stato all’altezza, chi non è libero in quest’area non saprà vivere serenamente questo momento, spesso caricando il giovane di sensi di colpa ingiustificati.
B3. Terza ipotesi: non mi servi!
Un grande rischio di un animatore che non è affettivamente sereno ed integrato è quello di dare spazio e responsabilità all’interno del gruppo solo a quelle persone che lo corrispondono affettivamente. Poiché quel giovane mi tratta con freddezza, anch’io lo tratto con freddezza, invece il vangelo ci insegna diversamente: “se date il saluto solo a quelli che vi salutano che merito ne avrete?”.
Inoltre è fondamentale che l’animatore sappia delegare il più possibile autorità e compiti, perché non c’è niente come l’esercitare delle responsabilità che insegna ad essere responsabili. Un animatore equilibrato saprà generare altri animatori e co-animatori.

C. Conclusione: gestione delle dipendenze
Sarà probabilmente chiaro ormai che il processo di dipendenza del giovane non è un fatto che va rifiutato, entro certi limiti l’animatore deve lasciare che il giovane si leghi con lui in un rapporto di dipendenza, perché sarebbe troppo traumatico per lui il doversi trovare senza punti di riferimento. Tuttavia bisogna sapere che questo è un rapporto imperfetto e guidarlo progressivamente verso una parità di responsabilità e verso una reale indipendenza.
L’animatore eviterà accuratamente di presentarsi come onnisciente e onnipotente, ed avrà cura di non creare legami affettivi fuori luogo, disponibile alle manifestazioni affettive del giovane, ma senza mai muoversi per primo. D’altra parte non avrà paura di accettare l’idolatria del giovane, né se essa è troppo gratificante, né se crea una oggettiva scomodità.
Evidentemente la libertà interiore non è uno stato, ma un processo, non è indispensabile che l’animatore sia perfettamente libero (quanti ne potremmo avere allora?), è sufficiente invece (ma necessario) che sia consapevole delle proprie ferite e carenze ed avviato in un processo di liberazione e guarigione interiore.

IO ANIMATORE?
3. Le qualità umane dell’animatore

Abbiamo visto nell’incontro precedente le distorsioni della funzione di autorità, oggi cercheremo di vedere innanzitutto come l’autorità può essere esercitata in modo sereno e costruttivo: la parola autorità viene dal latino augeo, significa “far crescere”. È autorevole non colui che pesta i piedi e si impone con la forza, ma colui che con la sua sola presenza suscita nell’altro le energie positive della crescita.
Occorre avere una cosa chiara nella mente: ogni giovane queste energie positive le ha già dentro di sé, sono un fatto nativo, essere uomini significa essere immagine e somiglianza di Dio e quindi avere dentro di sé una spinta che ci conduce ad assomigliare sempre di più al nostro modello. Compito dell’animatore non è perciò quello di scrivere su una lavagna bianca o riempire una scatola vuota, ma piuttosto risvegliare valori ed esigenze già presenti, ma forse assopite.
Questo presuppone una collaborazione tra l’animatore e il giovane, o meglio la parte migliore di lui, a cui bisogna saper fare appello. L’atteggiamento perciò non deve essere direttivo, ma innanzitutto di ascolto. Molte volte accade di risolvere situazioni drammatiche senza dire nemmeno una parola, ma ascoltando con amore, così che l’altro sia spontaneamente portato a mettersi in discussione e a fare le scelte giuste.
L’animatore perciò è un uomo di pace, è un uomo che attorno a sé diffonde serenità e gioia, che placa i conflitti interiori ed infonde luce con la forza della sua sola presenza. Crescere è una lotta, è fondamentale che il giovane trovi nel suo gruppo un oasi di serenità che lo liberi dalle tensioni di questa lotta. Da questo si capisce che il primo dovere dell’animatore è la presenza: ESSERCI È IL PRIMO IMPERATIVO!
1. Non solo ti amo, ti stimo!
Molte volte dietro la facciata dell’amore si nascondono comportamenti profondamente sbagliati, che nascono dall’idea che l’animatore debba scrivere su una lavagna bianca. Egli si convince così che non c’è niente nei suoi ragazzi se prima non ce lo mette lui. È un grosso errore. Il giovane per sentirsi stimolato a crescere ha bisogno innanzitutto di sentirsi stimato, di sapere che lui vale di per se stesso qualcosa.
Perciò non basta amare, è fondamentale voler bene, non basta l’amore se non è visibile, e ciò che rende visibile l’amore è la stima, l’affetto. Fate in modo che i vostri ragazzi sentano la vostra fiducia. Non importa se sbagliano, è inevitabile sbagliare, ma è solo se nonostante i miei errori io continuo a ricevere fiducia che potrò pian piano correggermi, è solo ricevendo continuamente fiducia che imparerò ad avere fiducia in me stesso e quell’immagine positiva di me che, come abbiamo visto l’altra volta, è così importante.
La capacità di dare stima perciò è una essenziale qualità umana dell’animatore, sa dare stima colui che vive la continua meraviglia di fronte a ciò che il Signore opera negli uomini, colui che può fidarsi perché si è fidato innanzitutto di Dio e tutto ha già da tempo consegnato nelle sue mani. Sa dare stima e fiducia colui che non ha paura di perdere perché sa bene che “tutto concorre al bene di coloro che amano Dio” (Rom. 8, 28)
2. Lascia vivere, ovvero non sei il supplente di Dio
Proprio perché tutto concorre al bene di coloro che amano Dio e tutto è nelle sue mani, dobbiamo liberarci dal complesso di essere i “supplenti di Dio”. A volte ci convinciamo che Dio è ammalato, oppure in ferie e quindi ha bisogno di qualcuno che lo sostituisca. Ovviamente non è così. La nostra fede ci dice che se il Signore in una situazione non è ancora intervenuto, vuol dire che non è il tempo opportuno, del resto è inutile che noi ci sforziamo con i nostri mezzi, se non agisce lo Spirito Santo i nostri sforzi resteranno vani. Chi semina nello Spirito raccoglie il centuplo, chi semina nella carne raccoglie un centesimo.
Concretamente questo significa: molte volte è meglio lasciare che il ragazzo viva fino in fondo una certa esperienza, anche se sbagliata, perché forse il Signore gli parlerà proprio attraverso quello sbaglio, e se non lo consuma fino in fondo non potrà mai incontrarlo. Vivi la tua vita nella serenità e nella pace; se ti sembra che la situazione richieda da te più di ciò che puoi dare, vuol dire probabilmente che non è a te che il Signore chiede aiuto in quel momento. Non avere mai la sensazione di essere all’ultima spiaggia, innanzitutto spera, e ricorda: Dio ama quel ragazzo molto di più di quanto non lo ami tu, quindi saprà bene cosa fare di lui.
Insomma, in una parola: fai del tuo meglio fino in fondo e con passione, dopodiché lascia agire il Signore e goditi lo spettacolo (modello Mar Rosso).
3. Nada te turbe: al di sopra di tutto la gioia
C’è una cosa peggiore della sofferenza, ed è la sofferenza disperata. Spesso l’unico compito dell’animatore consisterà nell’aiutare il ragazzo a sperare, nel mostrargli che qualsiasi sia la sua situazione esistenziale, c’è una gioia più profonda, che non può essere turbata da nulla, che è la gioia di essere amati da Dio.
L’animatore è sempre un uomo gioioso, il che non vuol dire uno sciocco. La gioia dell’animatore non è l’allegria esteriore, che è come la schiuma su un onda, può esserci o non esserci, è normale che ci sia, ma non è l’essenziale. Questa gioia dell’animatore è come una luce che spontaneamente caccia le tenebre, accanto a lui gli altri tendono spontaneamente a sviluppare pensieri positivi, perché la sua gioia è attraente, del resto l’uomo è fatto per la gioia, e spontaneamente si dirige sempre lì dove la gioia risplende, come una mosca va al miele.
Se volete attrarre i giovani siate sempre nella gioia!
Questa gioia non è solo un fatto psicologico, non nasce dall’ottimismo della volontà, ma dalla certezza della fede: sono nella gioia perché so che Dio mi ama e che tutto è nelle sue mani e che nulla può strapparmi dalle sue mani, sono nella gioia perché so che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio. Va mostrata in questi termini, è inutile cercare di convincersi che le cose non vanno poi così male, anzi: più fitta è la tenebra, più brillerà la luce.
Se la gioia è questo, allora va custodita, perché essendo legata alla fede è sempre minacciata. Come custodire la gioia? Con la lode. Imparate a lodare Dio sempre, in ogni circostanza, nel bene e nel male. Hai superato un esame? Loda Dio! È una bella giornata? Loda Dio! Ti sei messo con una ragazza? Loda Dio! Ma loda il Signore anche in quelle circostanze apparentemente negative: l’esame è andato male? Loda Dio ugualmente! Sei ammalato? Loda ugualmente Dio! Tuo fratello si buca? Loda Dio! Perfino se il tuo gruppo va male loda Dio! Loda Dio, perché in un modo che tu non sai o non vedi tutto questo serve alla tua salvezza o alla salvezza di quelle persone che ti sono affidate.
Mi sembra già di sentire le obiezioni (le ho sentite tante volte) “ma questo è fatalismo!” “se facciamo così ci sediamo e non operiamo più”. Ovviamente no. La lode non ci sottrae alla responsabilità di fare in tutto del nostro meglio, né a quella di analizzare il nostro comportamento per vedere come possiamo correggerci, però ammorbidisce il nostro cuore, scioglie in noi la durezza che nasce dalla paura, ci toglie per così dire il coltello dai denti e ci apre al sorriso nella certezza dell’amore di Dio, allora sapremo guardare alla realtà in un altro modo e trovare in noi quelle energie positive che ci consentono di cambiarla. Per non parlare poi di quanto la preghiera di lode muove all’azione il Signore, molto più di quando ci mettiamo a chiedere come pretendendo la sua azione.
4. Prima di parlare pensa, prima di pensare prega, mentre preghi ascolta, mentre ascolti prega
L’ascolto è la dimensione fondamentale dell’animatore: un animatore è sempre una persona estremamente flessibile: non esiste regola che non abbia la sua eccezione, perché la prima verità è l’amore per la persona concreta. Molte situazioni, anche delicatissime si risolvono semplicemente ascoltando, perché è nell’ascolto dell’altro che si mettono in funzione le sue energie positive: si potrebbe chiamare una medicina omeopatica. Ricordate che l’ottanta per cento della comunicazione è non verbale, quindi la vostra sola presenza, se la sapete usare, è un intervento assai forte, e per di più non invasivo.
Va detto anche che un animatore ha due orecchie, la prima deve essere costantemente rivolta verso il giovane, la seconda verso Dio, se è vero che sono tre i protagonisti della crescita, è vero anche che è compito dell’animatore ascoltarli tutti e metterli in relazione. Non prendete mai nessuna decisione se prima non avete pregato, è troppo grande il rischio di seguire un progetto soltanto nostro.
5. Quando non hai cavalli fa’ correre gli asini: l’autoterapia
Molte volte l’animatore in se stesso si sente inadeguato e incapace: si trova lì perché ce l’ha messo il parroco e certo non si sente chiamato da Dio. Va detto subito che il Signore è una persona concreta e quando non ha a disposizione cavalli fa’ correre gli asini. Proprio il fatto che ti trovi lì in quella concreta situazione è forse il segno più chiaro che Dio ti vuole in quel posto. Spesso del resto il Signore si servirà proprio di questa tua inadeguatezza per cambiarti e farti crescere nella fede.
6. Una casa per tutti un lavoro per ciascuno, non rivali, ma compagni.
L’animatore non lavora da solo, ma all’interno di una comunità, non opera da solo, ma perché ha ricevuto un mandato dalla comunità ecclesiale. È quindi fondamentale che riconosca un’autorità sopra di sé (quella della Chiesa che lo manda, concretamente rappresentata dalle persone che guidano la parrocchia) e che sappia collaborare all’interno della comunità educante di cui è parte.
La comunità di animazione ha una funzione molto importante nella crescita dei ragazzi e sarebbe bello che, entro certi limiti, i ragazzi avvertissero anche una certa intercambiabilità tra gli animatori, in modo da non mitizzare nessuno. Una comunità di animazione compatta è una forza a disposizione del ragazzo ed una garanzia per il futuro, nonché una testimonianza silenziosa, alla cui efficacia è difficile sottrarsi (guarda come si amano!).
7. L’autorità se uno non ce l’ha non può darsela, però...
In conclusione una nota: l’autorità è una qualità nativa, è un dono di Dio che uno non può darsi da sé, una persona è autorevole in buona parte per natura e non perché esercita una tecnica, e il primo discernimento per vedere se il Signore chiama qualcuno ad animare è proprio quello di vedere se ha in sé questa qualità di autorità. Detto questo però, nell’autorità si cresce.
Regola numero uno: dire sempre la verità, regola numero due: dire cose vere. È la verità ad essere autorevole, se un uomo dice la verità ecco che appare autorevole (L’esempio di S. Atanasio: dire la verità contro tutto e contro tutti). L’autorevolezza nasce dalla disponibilità a pagare di persona per la verità e dal mettere la verità sopra ogni altra cosa.

Davide

Davide

Staff di Animatamente dal 2009. Animatore esperto con più di 20 anni di esperienza con bambini, ragazzi e giovani.

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